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Il Carnevale a Carloforte

La data di inizio del periodo carnevalesco a Carloforte è sempre stata il 17 di gennaio (e dîsette de Zenò), il giorno della Festa di Sant’Antonio Abate. La ricorrenza anche oggi è sentita e festeggiata ed è forse, tra le usanze carnevalesche, quella che meno ha risentito del peso della modernità.
Tutto il paese trascorre la giornata in campagna: diverse comitive di amici, di parenti, di colleghi e compagni di lavoro si recano nelle vigne, dove, tra un piatto di stoccafisso, una fügasetta frita de nàigru de gran (focaccetta fritta di cruschello), la degustazione di ricci (se il tempo è bello) e tra risa spensierate, vengono intonati i canti tradizionali delle dîsette: Girumétta, O Cirulin (i nomignoli dei protagonisti delle due canzoni) e L’è e dîsette de Zenò (Son le diciassette di Gennaio), un tempo cantati e accompagnati dalle rundie (girotondo) della comitiva. Frammiste a queste canzoni di origine ligure, e datate tra l’ultimo Medioevo e il primo Rinascimento, vengono tuttora cantate romanze e canzoni che fanno parte della più ampia tradizione canora tabarchina.
Prima della diffusione dell’automobile, all’imbrunire le allegre comitive lasciavano la “baracca” (casa di campagna) e si avviavano a piedi per le strade che conducevano in paese, unendosi ad altre che incontravano nel cammino.
Il gruppo diventava sempre più numeroso e la baldoria cresceva. In paese continuavano i canti e le rundie e la festa si protraeva fino a tarda sera, nelle sale da ballo aperte per l’occasione.

Le maschere tradizionali

Diverse erano le maschere tradizionali: u gattu (il gatto), u dóminu (il domino), u dôtù (il dottore), mainò (marinaio), buênorxu e pescàu (contadino e pescatore), Pulcinella e Fiocca la neve.
Alcune di queste non vengono più proposte dai primi anni del Novecento, come il dôtù, abito serio e scuro; e la popolarissima Fiocca la neve, il cui abito era costituito da una sorta di vestaglia lunga e nera, su cui erano attaccate bianche palle di cotone a simboleggiare i fiocchi di neve.
A volte la maschera portava anche un ombrello nero, con i batuffoli di cotone incollati sopra.
È arrivato invece più o meno ai giorni nostri u gattu, mascheramento molto semplice: il corpo veniva avvolto in una sorta di mantello fatto con un lenzuolo o una tovaglia e con un cappuccio realizzato con la stessa stoffa; il viso era coperto da un sacchetto bianco sul quale venivano disegnati i baffi e il muso del gatto.
Altrettanto comune e semplice nella fattura era u dóminu, costituito da un mantello nero, possibilmente di raso, indossato sopra un abito maschile nero.
Infine, per il mainò, si utilizzavano le divise di leva di qualche uomo di famiglia, mentre, per il buênorxu e il pescàu, si usavano gli abiti da lavoro e gli arnesi del mestiere, solitamente gabbia e campanelli per il contadino, nasse e brandelli di rete per il pescatore.

Nell’ultimo giorno di Carnevale, le maschere per le vie del paese erano tantissime. Un folto numero era vestito con abiti femminili (indipendentemente dal fatto che fossero uomini o donne), con tanto di veletta e guanti neri, in segno di lutto, per partecipare “con costernazione” al corteo funebre per la morte di Carnevale, rappresentato da un fantoccio di dimensioni umane, realizzato con paglia o stracci (papun de strassa). Anticamente alla testa del corteo c’era un prete con un chierichetto, cui faceva seguito il pupazzo del Carnevale vestito di abiti maschili smessi, che, a seconda degli anni (e dei tempi), veniva trasportato o in una bara, o seduto legato su una sedia. Seguiva anche un altro fantoccio – questa usanza si è mantenuta fino agli anni Quaranta – dalle sembianze femminili (non foss’altro perché indossava una lunga gonna, uno scialle sulle spalle e un fazzoletto in testa), che simboleggiava la Quàixima (Quaresima). E dietro, naturalmente, una moltitudine di maschere “strazianti”. Il corteo, che si formava nel primo pomeriggio, dopo aver attraversato tutte le vie della cittadina si concludeva sul lungomare, dove il fantoccio, tra “lacrime” e “benedizione”, veniva buttato in mare, mentre le maschere ripetevano: “Carlevò, Carlevò ghe daiemu ’na botta ’n mò” (Carnevale, Carnevale gli daremo una spinta a mare).
Secondo l’indagine di un giovane ricercatore, Andrea Luxoro, la formula di “commiato”, prima di buttare il fantoccio in mare era la seguente: Carlevò u l’è mórtu / imbriegu cumme ’n pórcu / u l’ha fetu testamentu / u l’ha lasciàu ai só figiö / macaruin e raviö (Carnevale è morto / ubriaco come un porco / ha fatto testamento / ha lasciato ai suoi figli / maccheroni e ravioli). La Quàixima, invece, veniva legata a un albero e lì rimaneva fino a Pasqua. Alla fine di questi riti, tutte le maschere rientravano nelle loro case per prepararsi e ritrovarsi allegramente la sera nelle sale da ballo, per l’ultimo divertimento carnevalesco.

Articolo di Nicolo Capriata per la guida “Carloforte e l’Isola di San Pietro”

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